Testimonianza di Maria Letizia Bertucci

“Sempre affacciato a una finestra io sono, io della vita tanto innamorato.”

Mi piace rubare le parole a Sandro Penna per illuminare lo stato d’animo di Duccio Guidotti che attraversa la sua vita d’artista fra memorie, nostalgia del passato, amore al presente, capace di contemplare la realtà con lo stupore dell’innocenza e di comunicarla con l’essenzialità della matura disillusione. Anche il dolore è formalmente elegante nei suoi quadri. Così l’impasto dei colori, e la luce che penetra, quasi a suggerire le dolci ore di Bracciano trascorse accanto al padre che dipinge in silenzio mentre il figlio, piccolo, in quella vicinanza impara ad osservare e a gustare i colori, sapori e profumi. La lezione di compostezza e di coerenza morale si ritrova nelle figure dell’artista, sempre attente a proporsi sommessamente eppure con vigore.

La misurata gestualità e la densità quasi carnale del dolore risalgono all’intensa esperienza affettiva vissuta con la madre, ad un’infanzia protetta e calda.

Diversamente la giovinezza, segnata dalla guerra e dal gusto per il solitario vagabondare, rifiutando ogni convenzione e tappa prestabilita. Segue la scuola libera di nudo all’Accademia e studia da autodidatta nella Biblioteca Nazionale di via del Corso, cercando e cercandosi. E intanto dipinge, perfino sulle sue mani. Questa sua insofferenza verso la cultura ufficiale formalizzata lo rende artista, se è vero che l’arte fugge ogni omologazione. Lo aiuta un sottile senso dell’umorismo e l’attenzione per le umili cose – tuttavia ricche di sfumature – che ama e che rappresenta nei quadri. I suoi fiori, le sue antenne televisive ed i suoi orizzonti non sono meno importanti delle sue figure adagiate sulla tela in un immobilismo a volte sconcertante e esaltante.

La donna emerge e si pone al centro della sua attività artistica in una serie inquietante d’interrogativi. Il vivere femminile è colto nelle poliedricità degli atti quotidiani e dei sentimenti, oscurato da un velo d’irraggiungibilità o lucente di perfetta solarità, fulcro di una ispirazione originata dall’inconscio inesplorabile dell’artista, delicato e ricco di pudore nei confronti di una dimensione diversa e lontana, fortemente desiderata.

Ancora giovanissimo entra a far parte del Gruppo Pittori di guerra e vive sei lunghissimi anni trascinato dagli avvenimenti bellici nell’Europa orientale e in Egitto, dal quale sarà rimpatriato nel 1946 con due mele e un francobollo.

Sposato e padre di due figli, dagli anni ’50 agli anni ’70 si dedica attivamente al cinema ed alla pubblicità. Diventa responsabile del Settore grafico ed animazione del TG 1 mentre collabora con la televisione svedese.

La mostra alla Canova nel 1973 segna il ritorno ufficiale dell’artista alla pittura, dopo un sofferto fecondo isolamento.

Da allora il pittore ha espresso incessantemente il meglio di sé e della sua arte, comunicando quanto vissuto e rielaborato fantasticamente durante la pausa con una umanità tutta partecipe del grande e del piccolo, della sofferenza e della gioia, del comico e del drammatico. Nella convinzione che “pittura è ricerca” si è avventurato in nuovi sentieri tematici e lo sperimentare l’ha condotto all’affascinate creatività dell’affresco.

Questo è Duccio. Così abbiamo imparato ad amarlo.

 

Maria Letizia Bertucci